Il setting muto e la voce istituzionale. Costruzione di una cornice terapeutica
Dott.ssa Erika Debelli
Un intervento terapeutico si inserisce necessariamente all’interno di un setting che rimanda sia alle teorie di riferimento del terapeuta, sia a quelle prese come riferimento dall’Istituzione in cui il terapeuta opera. Solo la costituzione di un setting stabile nella situazione terapeutica permette che abbia luogo e si sviluppi il processo terapeutico e che questo possa essere analizzato.
Il setting, solitamente silente e presente solo sullo sfondo della situazione terapeutica quale riferimento interno o come cornice formale che regola la presa in carico, assume in alcune particolari situazioni una rilevanza che non può essere trascurata, in quanto esso si presenta attraversato da dinamiche di vario tipo e da un imponente flusso di identificazioni proiettive che percorrono il setting stesso tra individuo, gruppo di riferimento ed Istituzione.
In tal modo il setting viene toccato proprio nei suoi aspetti di “non-processo”, ed il setting “muto” (Bleger, 1967) inizia invece ad essere attraversato da un insieme di “voci” che rendono necessaria una continua verifica e ridefinizione dello stesso. Tale operazione diventa fondamentale in quanto, come sottolinea Bleger, è solo all’interno di un setting che si può analizzare sia il processo sia il setting trasformato in processo; pertanto il setting dell’analista “non deve essere né ambiguo, né variabile, né alterato”.
Nel presente lavoro viene esaminato, prima da un punto di vista teorico e poi da un punto di vista clinico, come la costituzione di un setting di psicoterapia individuale (e quindi anche la costituzione di un setting interno al terapeuta) possa subire l’influenza del setting istituzionale, e come sia necessario garantire prima di tutto una pensabilità al setting stesso per poter costruire uno spazio in cui il processo terapeutico si possa svolgere e che possa garantire successivamente anche una pensabilità al trauma.
Il caso clinico cui si fa riferimento rappresenta un caso particolare da questo punto di vista, in quanto già lo specifico motivo di invio alla Neuropsichiatria Infantile determina l’attivarsi di una rete di cui l’intervento in setting individuale rappresenta solo uno degli aspetti da prendere in considerazione. Dobbiamo infatti occuparci di un sospetto abuso sessuale su un bambino di 10 anni, e ciò implica il coinvolgimento nella gestione del caso di un insieme di figure professionali diverse, anche in considerazione del fatto che proprio nei casi di abuso su minori la scelta metodologica di intervento più opportuna è generalmente riconosciuta essere il lavoro di équipe (Ghezzi,1998).
La presa in carico, pertanto, parte da una presentazione del caso all’interno dell’équipe “Piattaforma Maltrattamento e Abuso” della Asl, dalla quale ricevo il mandato di seguire in un percorso inizialmente di valutazione psicodiagnostica il piccolo Antonio. Mi inserisco così all’interno di un processo che si è già avviato in seguito ad una visita medica per sospetto abuso richiesta dalla madre all’Ospedale, e in seguito alla presa in carico da parte del Servizio Sociale dell’Ospedale; da qui madre e bambino vengono successivamente inviati presso la Neuropsichiatria Infantile (NPI) e al Servizio Sociale di appartenenza, il quale predispone l’inserimento in Comunità per il bambino. I vari operatori e Servizi coinvolti si preparano subito ad accogliere un’ulteriore complessità, in quanto risulta necessaria anche la presa in carico del fratello maggiore di Antonio, inserito insieme a lui nella stessa Comunità. Diventa quindi importante un lavoro di rete anche all’interno della stessa Piattaforma, tra più ambulatori della Neuropsichiatria Infantile, in cui si possa sviluppare un pensiero e una progettualità comune che faccia riferimento a vissuti e necessità di entrambi i minori, e per fare ciò viene individuata una psicologa referente sulla situazione dell’intero nucleo familiare, la quale si occupa di tenere le fila con le due psicologhe dei bambini, il Servizio Sociale, il Tribunale, gli Educatori della Comunità, e la mamma dei due minori.
Nel corso della presa in carico del piccolo Antonio andrà progressivamente ad evidenziarsi come le “voci” istituzionali non consentano di mantenere un setting individuale “muto”, in quanto esse riecheggiano all’interno dello stesso, determinando più volte la necessità di ripensare prima di tutto il setting e di dare ascolto ad esso, per riuscire poi in tal modo a creare uno spazio in cui poter dare effettivo ascolto al processo che si sviluppa nel setting stesso durante la seduta e poter accogliere quanto portato dal bambino.
Diventa pertanto importante pensare non solo il lavoro in setting individuale, e non solo le implicazioni derivanti dal fatto di lavorare all’interno di un’Istituzione che presenta le sue procedure e i suoi saperi, ma diventa soprattutto importante pensare a come tutelare il lavoro in seduta con il bambino riuscendo a conciliarlo con il necessario e fondamentale lavoro di rete. Nota infatti la Bertotti (1997) come una sottovalutazione di quest’ultimo possa portare ad un fallimento dell’intervento, in quanto “spesso il fallimento nell’azione di tutela deriva da una scarsa consapevolezza e sensibilità sull’importanza del lavoro di rete e del coordinamento degli interventi, e talvolta si corre il pericolo di mettere in atto un vero e proprio abuso secondario di tipo istituzionale”.
Oltre che da una scarsa consapevolezza e sensibilità sull’importanza del lavoro di rete, un ulteriore ostacolo nella presa in carico può derivare al contrario proprio dalla consapevolezza della complessità che caratterizza la rete, tale a volte da bloccare la capacità di pensiero e di intervento degli operatori.
Ma la complessità può essere affrontata solo quando diventa oggetto di pensiero e di analisi, ed è stato pertanto questo il percorso che si è intrapreso e che viene esposto nel presente scritto. Per mezzo di riflessioni sia su quanto accadeva in seduta con il bambino sia su quanto emergeva nella varie riunioni di Piattaforma e di rete, è stato possibile valutare progressivamente come entrassero le “voci” dell’Istituzione nelle sedute con il piccolo Antonio. È stato quindi possibile pensare ad una complessità che potesse rimanere presente ma sullo sfondo, garantendo invece un setting il più possibile “muto” ad Antonio, in cui costituire uno spazio che gli consentisse di rappresentare il suo mondo interno. Si è andato quindi progressivamente strutturando anche un setting interno più stabile, meno influenzabile dalle richieste della rete, ma in grado di ascoltare la rete e di accoglierne i fondamentali apporti. Si è manifestato dunque anche il ruolo del setting come funzione attiva del processo analitico, che fa riferimento agli elementi di un ambiente che diviene a sua volta agente di trasformazione (Genovese, 1988).
Perché, per quanto possa risultare complesso il lavoro in rete, è necessario ricordare che esso è fondamentale soprattutto nei casi di abuso perché, come sostiene Bertotti (1997), “in queste situazioni è la rete nella sua globalità ad assumere una funzione ‘terapeutica’.”
CONSIDERAZIONI SUL SETTING
1. IL SETTING NELLA TEORIA PSICOANALITICA
Benché molti autori facciano spesso riferimento al setting nella tecnica psicoanalitica classica, Genovese (1988) rileva come non sia in realtà possibile rintracciare un corpus di regole sistematico nella letteratura attuale, pur essendo andati via via moltiplicandosi nel corso degli anni i contributi sull’argomento. In particolare l’Autore sottolinea come tali apporti sul setting abbiano mantenuto fondamentalmente costanti alcune indicazioni sulla prassi psicoanalitica contenute in particolare in alcuni saggi di Freud (1912, 1913, 1914a, 1914b), mentre sono andate allo stesso tempo maturando riflessioni critiche nell’ambito della teoria della tecnica.
Facendo riferimento all’opera di Freud è possibile reperire una serie di indicazioni su alcuni accorgimenti pratici, riguardanti il ruolo dell’analista, l’insieme dei fattori spazio-temporali, e il ruolo svolto da parte della tecnica. Tali indicazioni avevano come fine: l’instaurarsi di una condizione di isolamento in grado di proteggere dalla realtà esterna; il mantenimento di una condizione di sospensione dell’azione in grado di favorire la produzione emozionale e psichica; l’arresto di eventuali irruzioni della realtà interna dell’analista e del paziente; e infine il graduale sviluppo della traslazione e la sua risoluzione (Genovese, 1988). Secondo Genovese, tuttavia, le successive riflessioni sull’argomento hanno condotto ad una rilettura dei classici che ha portato a concentrare l’attenzione non più tanto sul setting come condizione formale del lavoro analitico, quanto sul setting come funzione attiva del processo analitico, anche per mezzo dell’individuazione di condizioni dell’analisi che permettevano “di individuare in essa non più soltanto gli accorgimenti necessari al mantenimento dell’asepsi ambientale, bensì alcuni principi attivi di un ambiente che diveniva a sua volta agente di trasformazione” (Genovese, 1988).
Si rende però a questo punto necessario, nel definire il concetto di setting, distinguere tra due aspetti: la situazione analitica ed il processo.
Si può definire la situazione analitica come “una particolare relazione tra due persone che si attengono a certe regole di comportamento per realizzare un determinato lavoro, nella quale sono distinguibili due ruoli ben definiti: paziente e analista” (Etchegoyen, 1986). Ma dato che ogni lavoro implica uno sviluppo, diventa chiaro come dal concetto di situazione analitica (che ha solo un riferimento spaziale) si vada a scivolare verso il processo (che ha necessariamente anche un riferimento temporale).
Autori come Bleger e Zac definiscono la situazione analitica proprio a partire dal processo. Bleger in particolare sottolinea come ogni processo analitico abbia bisogno per svilupparsi di un non-processo, il quale rappresenta una parte fissa e stabile, un insieme di costanti grazie alle quali può aver luogo il processo psicoanalitico, e che viene definita setting (Etchegoyen, 1986). Il setting farebbe quindi riferimento alle costanti del fenomeno, mentre il processo comprenderebbe l’insieme delle variabili; il processo pertanto può essere studiato solo se si mantengono le stesse costanti, se si mantiene il setting. In particolare per quanto riguarda il caso clinico di seguito esposto sarà possibile osservare più da vicino come proprio la difficile costituzione di una cornice stabile e fissa, e quindi la mancanza di quello che Bleger definiva un “non-processo”, ha reso un po’ più lento l’avviarsi del processo stesso e soprattutto la sua analisi.
Bleger aggiunge inoltre che la relazione analitica è una relazione simbiotica e, come la simbiosi con la madre (“l’immobilizzazione del non-Io”) consente al bambino lo sviluppo del proprio Io, allo stesso modo il setting esercita una funzione simile di sostegno, di cornice. Ma tale funzione si può vedere solo quando si modifica o rompe il setting. Il setting, che rappresenta e nel quale viene depositata la parte più primitiva della personalità, è la fusione Io-corpo-mondo, dalla cui immobilizzazione dipende la formazione, l’esistenza e la differenziazione. Quando si introduce una frattura nel setting, si introduce la realtà, e ciò fa sì che il setting del paziente, il suo mondo fantasma, rimanga senza depositario. Quindi “qualsiasi variazione del setting mette in crisi il non-Io, ‘smentisce’ la fusione, ‘problematizza’ l’Io e obbliga alla reintroiezione, alla rielaborazione dell’Io, all’attivazione delle difese per immobilizzare o proiettare la parte psicotica della personalità. […] In sintesi possiamo dire che il setting del paziente è la sua fusione più primitiva con il corpo della madre e che il setting dello psicoanalista deve servire per ristabilire la simbiosi originaria, ma proprio al fine di modificarla” (Bleger, 1967).
Ma, sottolinea Bleger, l’analista deve accettare il setting portato dal paziente, perché è in questo che si trova riassunta la simbiosi primitiva non risolta, tuttavia questo non dovrebbe condurre l’analista ad abbandonare il proprio setting: è infatti proprio in funzione di quest’ultimo che diventa possibile analizzare il processo ed anche il setting stesso trasformato in processo. Pertanto, conclude l’Autore, “il setting può essere analizzato soltanto all’interno del setting, o in altri termini, la dipendenza e l’organizzazione psichica più primitiva del paziente possono essere analizzati soltanto all’interno del setting dell’analista, che non deve essere né ambiguo, né variabile, né alterato”.
Il setting secondo Bleger deve quindi essere muto, affinché su questo sfondo possa parlare il processo (Etchegoyen, 1986).
Nel caso preso in esame il setting si è presentato inizialmente come tutt’altro che muto, in quanto soggetto alle interferenze di un setting istituzionale che portava più voci sulla scena e raccoglieva più richieste. In tal modo si è resa a più riprese necessaria la costruzione progressiva di un setting stabile, sia esterno che interno, che permettesse di offrire le condizioni adatte all’avvio di un processo analitico il quale, all’interno di una cornice non più mutevole, potesse dare voce non più all’istituzione ma al bambino, in modo da favorirne un ascolto vivo all’interno di un luogo in cui depositare la sua parte indifferenziata.
2. SETTING INDIVIDUALE E SETTING ISTITUZIONALE
Quando un setting individuale ad orientamento analitico si costituisce all’interno di una istituzione si sviluppano delle peculiari dinamiche, l’analisi delle quali ha aperto un nuovo ambito di riflessione che riguarda i rapporti che intercorrono tra la creazione ed il mantenimento di un setting analitico individuale e l’organizzazione che lo accoglie.
Già Bleger (1967) aveva evidenziato un’affinità tra setting psicoanalitico ed istituzione, affermando che “una relazione che si prolunga per anni con il mantenimento di un complesso di norme e atteggiamenti non è altro che la definizione stessa di un’istituzione. Il setting è quindi un’istituzione nel cui ambito si verificano fenomeni che chiamiamo comportamenti”. Il setting diventa in tal modo un contenitore all’interno del quale possono essere depositate funzioni psichiche molteplici, ed in particolare esso diventa depositario della parte indifferenziata dell’individuo e del gruppo, del “mondo fantasma”, in quanto il setting rappresenta, come abbiamo detto, la parte più primitiva della personalità.
L’istituzione ed il setting possono essere definiti, secondo Correale (1999), come una relazione o un insieme di relazioni che si protraggono nel tempo, regolato da norme condivise, determinando una vicinanza regolare la quale permette “un’estensione della sensorialità individuale” (Giardina, 2006). “L’individuo immerso nel setting o nell’istituzione apprende lentamente a considerare il suo mondo percettivo istituzionale come un mondo sensoriale condiviso con gli altri membri, percepito cioè da loro come da un unico apparato percettivo e sensoriale. Ogni volta che il membro di un’istituzione o l’analizzato nel setting rientra nello spazio condiviso si trova quindi in uno spazio abituale, già riempito dalla sua fantasia, come dotato di una sensorialità comune. Il luogo diventa il nostro luogo, il deposito della nostra vita e non più solo di un’unica vita: o meglio si attiva una fantasia legata ad una indistinzione tra io e noi” (Correale 1999). Diventa pertanto chiaro come la predisposizione di un setting analitico all’interno di un contesto istituzionale conduca a dei fenomeni tali per cui inevitabilmente l’organizzazione e le dinamiche dell’istituzione interagiscono o interferiscono con le dimensioni strutturali e simboliche del setting.
Queste considerazioni hanno condotto alcuni autori ad interrogarsi sull’applicabilità reale del setting analitico all’interno di un contesto istituzionale, in particolare a causa dell’intrecciarsi di valenze istituzionali molteplici che provengono sia dal singolo sia dall’istituzione. Fava ad esempio osserva come all’interno dell’istituzione possano instaurarsi due setting: uno “pensato”, che “viene continuamente messo alla prova per l’effetto alone delle regole istituzionali che sembrano farsi contenitrici degli attacchi interni al setting di paziente e terapeuta”, e uno “non pensato”, il quale si caratterizza in regolamenti e norme fornendo un contenimento a nuclei simbiotici non integrabili in un dato momento, i quali possono così rimanere depositati nella parte istituita delle regole istituzionali. “Il fatto di stabilire tutte le regole del setting fin dall’inizio, senza dover fronteggiare in uno stato di emergenza eventuali nuove situazioni, consente di dare pensabilità a questo dispositivo che costituisce soprattutto una costante necessaria per l’osservazione delle variabili del processo analitico” (Giardina, 2006).
Secondo l’Autore diventa quindi importante mantenere viva la funzione pensante accettando il confronto anche se complesso tra i modelli presenti all’interno dell’istituzione e tra questi e le diverse prassi cliniche. Anche perché, sostiene Giardina, all’interno del contesto istituzionale il setting non è quasi mai muto, né per il paziente né per il terapeuta, ma è costantemente immerso nel “rumore di fondo” della propria psiche e del Servizio; diventa pertanto importante la costruzione di uno spazio mentale nel terapeuta che opera in contesti istituzionali, al fine di riuscire ad accogliere il paziente e di stabilire con quest’ultimo una relazione terapeutica che tenga conto sia dei tempi del paziente che delle grandezze istituzionali. Inoltre, sostiene Giardina, è proprio la dimensione anonima dell’istituzione a rendere ancor “più necessario, rispetto ad un ambito privato, che il terapeuta possegga una disponibilità interna, atta ad accogliere intimamente la diade o il gruppo, e una solida consapevolezza del modello di riferimento. Tale modello deve essere flessibile per adattarsi alla realtà istituzionale, senza per questo tralasciare quel rigore che garantisce al setting la sua funzione terapeutica all’interno del processo analitico”.
L’applicazione del modello di riferimento in modo flessibile pur garantendo il rigore del setting dovrebbe favorire anche la pensabilità del setting stesso; quest’ultimo può essere considerato come un elemento che, se non pensato e analizzato sistematicamente, può trasformarsi in una organizzazione consolidata che conduce all’acquisizione di un Io “adattato” come base della personalità, in funzione di un modellamento esterno delle istituzioni. Bleger si riferisce ad esso utilizzando il termine “Io fattico”, con il quale rappresenta “un ‘Io di appartenenza’ costituito e mantenuto inserendo il soggetto in un’istituzione (che può essere la relazione terapeutica, l’associazione psicoanalitica, un gruppo di studio o qualsiasi altra istituzione): non c’è un ‘Io interiorizzato’ che dia stabilità interna al soggetto. Diciamo, in altre parole, che tutta la sua personalità è costituita da ‘personaggi’, cioè da ruoli, o, in altre parole ancora, che tutta la sua personalità è una facciata” (Bleger, 1967).
Partendo dalle considerazioni di Bleger sull’Io fattico, Profita e Ruvolo (1997) mettono in evidenza come l’Io fattico sia proprio quello che non può pensare l’istituzione di appartenenza, e che può avere con essa solo una relazione identificatoria “primitiva e indifferenziata”. Tale impensabilità è, secondo gli Autori, dovuta al fatto che “è tabù pensare ciò che ci pensa e che ci assegna in un ruolo di identità”. Tuttavia, sostengono gli Autori, il significato e la caratteristica essenziale di ogni setting è proprio quella di porsi come istituzione altra (ovvero di universo esperienziale altro) rispetto all’istituzione, senza contrapporsi a quest’ultima, ma con lo scopo di consentire la nascita e lo sviluppo proprio di un pensiero su di essa. Anche nel corso della presa in carico esposta nel presente lavoro è stato necessario andare al di là di una iniziale identificazione “primitiva e indifferenziata” con le richieste e le esigenze del Servizio, creare uno spazio di pensabilità del setting e del paziente nel setting, spazio di pensabilità che ha trovato anche nelle supervisioni un contenitore adeguato.
Si può quindi asserire che i rapporti tra setting e istituzione assumono una configurazione complessa: l’istituzione contiene e rende possibile la costruzione del setting; il setting analitico permette di pensare l’istituzione. Ma allo stesso tempo “il setting analitico è potenzialmente dirompente per l’istituzione proprio perché tende a rivelarne le connessioni segrete e a decostruirla analiticamente. L’istituzione, a sua volta , tende in vari modi a irrompere nel setting per controllarne la potenzialità disarticolante, ostacolandone il lavoro di analisi” (Profita, Ruvolo, 1997). Questi Autori sostengono quindi che l’istituzione è contemporaneamente sia la cornice esterna che contiene il setting analitico, sia l’oggetto del lavoro che si svolge all’interno del setting. L’istituzione si offre come contenitore del setting analitico, ed il setting analitico si pone come contenitore della relazione analista/paziente, contenitore che si forma anche attraverso le microesperienze di essere all’unisono e quindi attraverso l’incontro con la mente dell’altro, contenitore all’interno del quale il contenuto può prendere forma.
Ferro (1996) offre altre interessanti osservazioni sull’argomento. Egli sostiene che per consentire operazioni trasformative il contenitore deve necessariamente essere capace di elasticità e di assorbenza. Ma inevitabilmente il setting subirà, nel corso della presa in carico di ogni paziente, una serie di movimenti dovuti a rotture formali o sostanziali del setting, provenienti dal paziente o dal terapeuta stesso.
Nel caso di rotture del setting da parte del paziente, l’Autore sottolinea quanto queste possano avere una straordinaria ricchezza comunicativa. Tuttavia ciascun terapeuta le potrà interpretare come comunicazioni, interferenze, disturbo o pericolo in base al proprio grado di tolleranza alle rotture del setting, aspetto che diventa quindi un elemento di cui essere consapevoli in quanto diviene uno dei propri criteri di analizzabilità.
Le rotture di setting formali da parte dell’analista, le quali sono considerate da Ferro da evitare, ma allo stesso tempo inevitabili, diventano un’occasione per entrare in contatto con il nucleo agglutinato e con il relativo sistema di angosce e difese, grazie all’attenta analisi di quanto succede nella stanza in seguito alle rotture.
Le rotture di setting sostanziali da parte dell’analista si hanno invece quando il campo emotivo viene modificato portando un assetto mentale differente da quello abituale. Ciò può condurre a due situazioni: nel primo caso vi è semplicemente una diminuzione della recettività, per cui le identificazioni proiettive del paziente trovano minore accoglienza e trasformazione; nel secondo caso può esserci un’inversione del flusso delle identificazioni proiettive. È importante notare che le rotture sostanziali provocano conseguentemente anche delle rotture formali del setting, e diventa quindi necessario recuperare quanto è stato disturbante o indigeribile per arrivare a nuove possibilità di trasformazione e di pensabilità.
Nel caso del setting istituzionale si fa riferimento ad un campo emotivo comune più esteso, del quale sono vettori le identificazioni proiettive crociate (Ferro, 1992). In esso si evidenzia inoltre la possibilità di transito degli oggetti interni nello spazio interno-esterno del gruppo e dal gruppo all’individuo e viceversa.
3. SETTING NELL’ABUSO SESSUALE SU MINORI
La presa in carico nei casi di abuso sessuale su minori assume delle caratteristiche particolari dovute principalmente a due ordini di fattori: innanzitutto l’attivazione di una rete di professionisti chiamati in vario modo ad intervenire; ed in secondo luogo il particolare tipo di trauma, che porta a dover gestire, oltre ad un insieme di vissuti estremamente difficili, anche un delicato equilibrio tra l’attenzione da rivolgere al mondo interno della piccola vittima e i costanti richiami al piano di realtà.
Per quanto riguarda il primo punto ora evidenziato, è importante ricordare quanto affermato da Roccia (2001): “in casi tanto complessi […] nessun psicologo o psichiatra può avere la presunzione di lavorare da solo (Malacrea, Vassalli, 1990; Malacrea, 1998). La terapia di soggetti coinvolti in abusi sessuali richiede la collaborazione di più soggetti (insegnanti, polizia, Assistenti Sociali, magistratura, ecc.), da attivare a seconda dei casi e con modalità da pensare di volta in volta”. La rete diventa quindi un’importante risorsa, e il lavoro su di essa deve avere l’obiettivo di costruire reti comunicative funzionali e definire relazioni che favoriscano la progettazione di interventi coerenti e in grado di produrre cambiamenti. Nella complessità dell’intervento richiesto risiede, oltre ad una risorsa, anche un’area di difficoltà, in quanto essa obbliga a “operare in una zona di confine che connette più istituzioni, più interventi e differenti competenze professionali” (Ghezzi, 1988).
La costituzione di una rete in cui trovi spazio un progetto comune non deve tuttavia far perdere di vista le specificità professionali di ciascuno, e nei casi di abuso la situazione ancora una volta appare anche su questo frangente più complessa. L’attenzione del terapeuta al mondo interno del bambino deve infatti andare di pari passo con un attento esame della situazione reale in cui l’evento traumatico ha avuto luogo. Ghezzi (1988) mette in evidenza come “non è possibile un percorso terapeutico in senso stretto se non c’è preventiva chiarezza sugli accadimenti passati e se non c’è chiarezza sulla situazione presente”.
Siamo pertanto in un setting, che pur richiedendo un importante lavoro relativamente ai vissuti della piccola vittima e all’elaborazione degli stessi, richiede anche contemporaneamente di tenere un costante collegamento con fatti e soggetti reali che intervengono nel processo, per eventualmente elaborarli a livello intrapsichico insieme al bambino, dare loro una pensabilità, una possibile alfabetizzazione.
Ma come conciliare due ambiti apparentemente così lontani e riuscire a vedere il minore nella sua globalità, anche al di là del trauma reale subito?
La riflessione sulla creazione del setting in un contesto di valutazione diagnostica e terapeutica di un minore vittima di abuso porta Carratelli, Di Cori e Sabatello (1997) a chiedersi quale neutralità si debba e si possa garantire al minore nel corso delle sedute senza reiterare attraverso l’esame del minore lo scenario traumatico in una sorta di abuso iatrogeno. Questi Autori sostengono che per garantire la neutralità ed una prassi non violenta nei confronti del bambino durante una diagnosi, sia in contesto clinico che peritale, sia necessario “procedere oltre la ‘rappresentazione traumatica esterna’, oltre l’episodio di seduzione o maltrattamento in quanto ‘epifenomeno’. Quest’ultimo tende infatti a cristallizzare il trauma nella relazione di transfert, spingendoci verso una indebita attività, falsamente riparativa, mentre il nostro compito rimane invece prioritariamente quello di riuscire a ‘pensare e sentire’ assieme al paziente la violenza che l’abusante riesce solo ad agire” (Carratelli, Di Cori, Sabatello, 1997). Per fare ciò è necessario non ridurre il minore al trauma subito, in quanto ciò significherebbe proprio reiterare la violenza, perdendo di vista la globalità della persona.
Carratelli, Di Cori e Sabatello sottolineano inoltre come il bambino abusato o maltrattato abbia bisogno di uno spazio fisico e psichico adeguato ai suoi bisogni di analisi, in cui sperimentare un’esperienza di attaccamento all’oggetto. Pertanto il terapeuta e l’istituzione dovrebbero farsi garanti di un contenitore che non sia un contenitore inerte o addirittura ostile, ma un contenitore in grado anche di facilitare la relazione con il terapeuta “senza reiterare la dimensione predatoria del bambino da parte dell’adulto”. Va quindi offerta, prima di tutto, “una ‘zona franca’ che funga da contenitore, che consenta di usufruire di uno schermo che protegga dal minaccioso, perturbante vissuto di impotenza di colpa e vergogna. Non si tratta quindi di soffocare la tendenza a riprodurre lo scenario traumatico di violenza o seduzione, ma di circoscriverlo sin dalla primissima fase valutativa, diagnostica, all’interno di un setting che promuova la ricostruzione o costituzione ex-novo di una ‘membrana’ in grado di regolare il flusso di impressioni, immagini e frammenti di memoria altrimenti tossici per la psiche”.
Il setting diventa quindi anche un fattore di protezione per il minore, che gli consente di ritornare in contatto con il trauma all’interno di un contenitore e di una relazione che lo sostengono.
Diventa quindi necessaria una posizione terapeutica sostenitiva, flessibile, giustificata anche dalla possibile precedente esperienza di inadeguatezza delle cure primarie, comune a molti casi di maltrattamento e abuso, inadeguatezza che ostacola la possibilità di elaborazione e di pensiero, creando le basi per un successivo blocco affettivo ed un mancato acceso al simbolico. La disponibilità del terapeuta può sollecitare intensi vissuti di intrusione, riattivando le componenti traumatiche e generando reazioni terapeutiche negative nel bambino. Si rivela pertanto efficace un atteggiamento di ascolto e di “silenzio interpretativo” che favorisca la costruzione di uno spazio potenziale in cui il bambino possa trovare le condizioni ideali per fare un’esperienza priva delle interferenze da parte del terapeuta. Quest’ultimo, concludono Carratelli, Di Cori e Sabatello (1997) “deve essere una ‘presenza transizionale’ ed offrire un holding alle profonde angosce di frammentazione del bambino vittima di maltrattamento”.
Il setting deve quindi, secondo questi Autori, ricomporre “l’idioma personale del bambino”, alleggerito dei contenuti che provengono dall’adulto, affinché possa riprendere il proprio “discorso interrotto”, senza che venga travolto dal passato e dal discorso dell’adulto, ma per mezzo di un riconoscimento dei suoi bisogni primitivi e attraverso la promozione della sua capacità simbolica, al fine di sostenere la sua capacità di rispondere creativamente al trauma.
È necessario pertanto fornire una visione articolata e maggiormente prospettica della realtà del minore, al fine osservarlo nella sua globalità e non ridurlo al trauma subito (Carratelli, Di Cori e Sabatello,1997).
Anche altri autori, tra i quali Malacrea (2002) sottolineano come a volte nel corso della valutazione di un minore vittima di abuso ci sia la tendenza a fare riferimento ad una “scientificità” che paralizza la possibilità di pensare il bambino, prima che pensare l’abuso, ed invece è proprio questo il primo obiettivo che ci si dovrebbe porre e che dovrebbe essere parte ineludibile di ogni valutazione psicologica.
Carratelli, Di Cori e Sabatello (1997) affermano in conclusione che “il precursore per la creazione di un setting e di una relazione non violenta, non sia rappresentato tanto dalla neutralità implicita dell’oggetto […] quanto dalle sua qualità neutrali. Si tratta di qualità nuove, rese attive attraverso uno stile di osservazione partecipe nella quale il bambino possa fare esperienza della disponibilità emotiva nei confronti delle sue produzioni, dei suoi pensieri ed emozioni […]. Attraverso la particolare metodologia di ascolto e di attenzione per le diverse modulazioni del transfert […] possiamo aprire al senso e creare il contrasto tra il presente e l’intollerabile passato traumatogeno”.
Partendo da queste necessarie premesse teoriche sarà possibile analizzare nel caso clinico di seguito esposto come si sia verificato un progressivo passaggio da un setting inizialmente poco definito, un contenitore che non era in grado di favorire la relazione in quanto conteneva già troppi riferimenti istituzionali, verso un setting maggiormente in grado di contenere le produzioni del bambino, di aprirsi verso un ascolto più vivo.
COSTRUZIONE DEL SETTING TERAPEUTICO.
UN CASO CLINICO
1. LA PRESA IN CARICO
1.1 Il mandato istituzionale
Il caso mi viene presentato all’interno del équipe “Piattaforma Maltrattamento e Abuso” della Asl dalla Psicologa che in seguito avrà la funzione di coordinatrice, occupandosi di mantenere i contatti con la psicologa cui viene dato in carico il fratello, con l’Assistente Sociale, con la madre e, infine, con la Comunità in cui risiedono i minori. Mi vengono date le prime informazioni: Antonio è un bambino di quasi 10 anni, boliviano, giunto in Italia da circa un anno per ricongiungimento alla madre, qui stabilitasi già da qualche anno, la quale in seguito ad un episodio al parco in cui il bambino si è avvicinato in modo troppo confidenziale ad un uomo, ad episodi di leggera encopresi e a dolore anale persistente, inizia ad avere dei sospetti in merito ad un possibile abuso. Chiede in seguito direttamente al figlio, il quale conferma un abuso subito in patria, ma senza riuscire a definire meglio il fatto. La signora, supportata dall’Educatrice che segue il nucleo familiare, accompagna il figlio presso l’ambulatorio pediatrico specialistico: dalla visita medica viene confermata la presenza di segni compatibili con l’abuso. Vengono quindi attivati il Servizio Sociale e la NPI. Il lavoro di rete inizia quindi a spiegarsi davanti ai miei occhi e si dimostra già avviato e operativo prima ancora che io veda il piccolo Antonio.
Mi viene richiesta una valutazione diagnostica con un approfondimento in merito all’abuso, anche in considerazione del fatto che i contorni di quanto accaduto ad Antonio appaiono ancora poco chiari. Sento forte la richiesta da parte della Piattaforma quasi di una “indagine” sui fatti, e solo secondariamente sui vissuti, e ciò inizialmente mi mette a disagio.
Vengono stabilite le successive riunioni di rete con tutti gli operatori, e allo stesso tempo vengono confermate le riunioni mensili di Piattaforma come possibile contenitore di difficoltà, ansie o come spazio di condivisione di quanto potrà emergere nel corso della presa in carico.
1.2 Le prime sedute
Arrivo alla mia prima seduta con Antonio già con un insieme di fantasie che la presentazione del caso ha attivato dentro di me, con un insieme ancora confuso di informazioni sul piano di realtà, e con una richiesta di approfondimenti che in parte mi preoccupa. Ma la mia preoccupazione assumerà contorni più nitidi e maggiore pensabilità solo nel momento in cui mi troverò di fronte alle risposte che si attiveranno in Antonio durante la seduta. Alla prima seduta mi accingo ad accoglierlo prefigurandomi un bambino spaventato, a detta degli educatori a volte un po’ confuso in contesti che non sempre riesce a capire, anche a causa della scarsa conoscenza dell’italiano. Ma con stupore noto che entra in stanza deciso ancora prima dell’Educatore che lo accompagna, si siede ed aspetta.
Inizio pensando di dare una cornice ai nostri incontri, spiegandogli chi sono, cosa faremo, e ripercorrendo davanti a lui il percorso che lo ha condotto qui, dall’insorgere della preoccupazione nella mamma alla visita medica e all’arrivo in NPI. Ma mentre ripercorriamo questa strada lo vedo diventare sempre più cupo, ho la sensazione di aver detto troppo, di aver intruso troppo. Riprendendo il racconto della sua storia decido di sostenere anche gli aspetti positivi e di possibilità di condivisione delle paure, ricordando come per far fronte alla paura dell’Ospedale trovasse l’aiuto del fratello che stava sempre con lui. Antonio pare più rilassato e porta due narrazioni di sofferenza e di cura da parte della madre, per un dente rotto e per un episodio di epistassi notturno. Inizio a pensare che ci sia una possibilità di ascoltare la sofferenza e di attuare un intervento di cura anche qui, ma forse solo ascoltando il bambino che soffre, come una madre che nel silenzio della notte accorre per tamponare il naso sanguinante del figlio, in un silenzio che sostiene l’ascolto della sofferenza del bambino senza disturbanti rumori di fondo. Proseguo la seduta ascoltando quanto lui mi porta e cercando di tenere solo sullo sfondo le richieste del Servizio: ora Antonio inizia a fare un disegno piccolissimo al centro di un foglio che rappresenta lui ed il fratello che giocano, vicino ad un televisore con due pulsanti di cui “questo funziona… questo no…”, disegno che poi viene ulteriormente ridotto, ritagliandolo lungo i bordi e tagliando a pezzettini tutto il foglio bianco circostante. Provo un senso di angoscia di fronte a quella minuscola rappresentazione di sé e del fratello e a tutta questa frammentazione, sento la necessità di offrire un contenitore ai pezzi, e gli propongo di custodirli nella cartellina, cosa che lui accetta chiedendomi di partecipare e di aiutarlo a mettere via tutti i pezzi.
Alla fine della prima seduta mi trovo quindi con vissuti di intrusione nei confronti di Antonio, che porta vari elementi di sofferenza senza riuscire a parlare dei “fatti”, ma con un iniziale accenno alla possibilità di condivisione della sofferenza e di un primo contenitore in cui inserire i suoi “pezzetti” psichici così frammentati. Mi trovo però combattuta tra la necessità di rispondere alla richiesta che mi arriva dal Servizio e l’esigenza di costruire una relazione di ascolto con Antonio che rispetti la sua sofferenza e i suoi tempi. Trovo difficile la costituzione di un setting “muto”, sento la presenza, quasi “intrusiva” anch’essa, dell’Istituzione.
Nella seduta successiva decido di lasciare che il nostro campo terapeutico si popoli delle narrazioni e dei personaggi portati da Antonio e dalla nostra interazione in seduta, senza insistere troppo con domande sull’abuso, che sento come intrusioni per il bambino.
Ma nella successiva discussione in équipe mi viene ribadita la necessità di contrastare la negazione del trauma, negazione che le vittime di abuso spesso hanno già subito da parte dell’abusante e dei familiari, e che non deve essere riproposta in seduta. Viene accolta la mia necessità di ascoltare i vissuti e i tempi del bambino per affrontare il tema, ma mi viene suggerito un atteggiamento che vada comunque ad indagare in modo più attivo gli avvenimenti. Il riferimento teorico principale cui viene fatto cenno in questa occasione sono gli scritti di Malacrea, la quale sostiene che dalla negazione “deriva un attentato costante, ripetitivo, a volte esplosivo a volte strisciante, al processo terapeutico, a cominciare dalla difficoltà a forzare il muro abbastanza almeno per vedere tutta e in chiara luce la piaga da curare. […] Curare, quindi, quasi contro corrente, quasi forzando il paziente, assumendosi la responsabilità che non ‘muoia’ pur ‘vedendo’.” (Malacrea, 1998).
Allo stesso tempo a me ritornano in mente le indicazioni in particolare di Ferro sulla necessità di una disposizione a lasciarsi transitare dalle emozioni che si sviluppano nel campo a partire dagli enunciati del paziente, oltre che l’immagine proposta da Bion del paziente quale “miglior collega” dell’analista, ma anche le indicazioni di Carratelli, Di Cori, Sabatello (1997), i quali ritengono che “non debba essere la verità storica a rappresentare il fuoco dell’indagine psicodiagnostica con minori abusati ma la complessità dell’articolazione tra realtà e fantasia”, riuscendo a sostare, come sostiene Ferro (1996), nella capacità negativa del terapeuta intesa come “qualità di non persecuzione, non intrusione, non decodificazione e non colonizzazione interpretativa del testo del paziente”(Vigna-Taglianti, 1997).
In particolare Ferro (1996) afferma che vi debba essere “attenzione continua alle capacità assuntive del paziente e a non cimentare la sua funzione α, e il suo apparato per pensare i pensieri, più di quello che possa reggere, il che causerebbe solo persecuzione che verrebbe segnalata nel testo”. E la segnalazione anche in questo caso non tarda ad arrivare.
Nella seguente seduta Antonio ritorna dopo un’interruzione a causa di un piccolo intervento chirurgico. Parla subito di quanto accaduto, e dopo aver accolto i suoi vissuti relativi a questo evento, mi viene da pensare a quando è stato in Ospedale per la visita al centro specialistico per gli abusi. Ma quando inizio a parlarne con Antonio, questi si fa più cupo in volto e poco dopo mi dice che deve fare la cacca. Arriva dunque una prima chiara segnalazione che sono andata a stimolare qualcosa che non si può gestire, che non si riesce a tenere, che si evacua con urgenza, modalità che si presenterà anche in altre successive sedute. Di ritorno dal bagno, Antonio inizia a giocare con la lampada che c’è sul tavolo: sente che è calda (era accesa nell’ora precedente), la tocca cautamente con le dita su tutta la lunghezza, dicendomi in quali punti è più calda e in quali meno. Poi la accende, sente che si scalda sempre di più, fino quasi a bruciare, e lo fa sentire anche a me, invitandomi a mettere un dito nel punto esatto in cui l’aveva messo lui, togliendolo all’ultimo momento, quasi come se dovessi riuscire a sentire esattamente lo stesso calore (o lo stesso bruciore), nello stesso punto e nello stesso momento in cui lo sente lui. E quello che sento è una indicazione sulla necessità di avvicinarsi con cautela alle “cose che scottano”, di vedere insieme quali punti si possano toccare e come farlo per non sentire bruciare; un’indicazione su come toccarli insieme, con lui che mi indica esattamente il punto e il momento in cui sentire il bruciore della lampada; con la necessità di fare luce e di vedere quanto succede, ma solo dopo aver capito come farlo senza “scottarsi” troppo, e dopo averlo capito insieme a lui, andando a “toccare con mano”, e non in base a pre-concetti su quanto possa scottare.
La riflessione successiva su questa seduta e sui relativi vissuti di controtransfert mi porta a definire progressivamente con maggiore attenzione il setting in cui inserire questo percorso: ritengo utile la costruzione di un setting non intrusivo, non violento, che lasci posto sia alla pensabilità del setting in via di definizione, sia alla creazione di uno spazio per rappresentare affetti e vissuti, in cui il bambino non si trovi a dover rivivere una situazione nuovamente di predazione.
In tal senso si trovano indicazioni anche da Borgogno, il quale sostiene che “porsi in contatto con bisogni profondi e immediati del paziente e con le sue emozioni presenti è perciò in ogni caso, il precipuo compito dell’analista, più di quanto non lo sia la ricerca della ‘verità’ e di interpretazioni precise” (Borgogno, 1995; cit. in Vigna-Taglianti, 1997). Anche facendo riferimento alla letteratura sul trauma, si può ricordare come Ferenczi sostenesse che i traumi dovessero essere dedotti dalle “cicatrici reattive” che ne prendono il posto, in quanto il trauma “non può essere ricordato perché non è stato mai cosciente, può solo essere rivissuto e riconosciuto come passato” (Borgogno, 1999).
Proseguo quindi la presa in carico sentendo sempre di più la necessità di pensare un setting che non sia “abusante”, ma che riesca a vedere il bambino nella sua globalità, permettendogli una rappresentazione degli affetti.
Ma in seguito ad una favola della Düss in cui emerge la figura di un padre cattivo, accompagnato da un comportamento nervoso e dall’immediato allontanamento del disegno corrispondente, mi trovo di nuovo ad avere l’indicazione di insistere nel chiedere di più. Nella seduta successiva aderisco alle indicazioni che mi arrivano del Servizio e, riprendendo la Düss; al momento in cui provo ad approfondire la favola mi trovo di nuovo di fronte al bisogno impellente di Antonio di andare in bagno. Accolgo la sua difficoltà, il possibile timore a parlare di alcune cose, e glielo rimando, insieme alla necessità di “fuggire” da cose che “scottano”.
L’insieme degli accadimenti mi lascia a volte confusa, e trovo difficile analizzare quanto accade in seduta perché non sempre riesco a mantenere un setting stabile che concili quelle che io sento come delle necessità in seduta e quelle che invece sono le necessità del Servizio. La rottura del setting, l’irrompere della realtà nella seduta ha fatto sì, come sostiene Bleger, che il mondo fantasma del paziente rimanesse senza depositario. Mancando un setting stabile si manifesta la difficoltà anche nell’analizzare il processo, in quanto è solo attraverso il setting che è possibile analizzare non solo il setting, ma anche il setting trasformato in processo. Progressivamente nelle sedute sperimento la confusione, l’impotenza, sento l’intrusività delle richieste istituzionali, e allo stesso tempo sento quasi specularmente anche la mia intrusività con le domande troppo dirette a Antonio, e la sua confusione e impotenza in uno spazio in cui non è ancora possibile depositare la propria produzione emozionale e psichica, che pertanto viene spostata su un piano somatico, agita ed “evacuata” all’esterno della seduta.
Le successive riflessioni su quanto si è andato manifestando nelle sedute e nei miei vissuti di controtransfert mi portano sempre più chiaramente a sostenere la necessità di una più chiara definizione del setting, che conduca alla creazione di un setting interno maggiormente stabile, il quale possa garantire ad Antonio un setting non invaso dalle richieste istituzionali.
1.3 Il lavoro in rete
Parallelamente alle sedute con Antonio hanno luogo anche gli incontri di rete e di Piattaforma. Nelle riunioni di rete si intrecciano i diversi ambiti istituzionali coinvolti, con gli interventi della NPI, del Servizio Sociale, i contatti con il Tribunale, la Comunità.
Durante una riunione di rete l’Assistente Sociale comunica le ultime novità relative al nucleo familiare, e la coordinatrice espone il suo incontro con la madre dei bambini. Il quadro che si profila mi porta ancora a riflettere non solo sull’aspetto di coerenza interna dei singoli setting, ma anche sulle relazioni interistituzionali che vi si riflettono. Vedo, in seguito a una mia richiesta, come nessun setting possa essere pre-costituito e come necessiti invece un’approfondita analisi della domanda e della situazione per poi potersi costituire sulla base di queste. Per cui di fronte alla mia esigenza di avere dati anamnestici più approfonditi dalla madre, di cui sento fortemente la mancanza, mi viene spiegato come nel colloquio con la coordinatrice, la signora si fosse dimostrata molto sofferente, con profondi vissuti di colpa, e pertanto per ora non in grado di fornire un’anamnesi accurata. Compare quindi in modo più chiaro la necessità di occuparsi non solo della coerenza del singolo setting, ma anche della relazione tra i vari attori coinvolti nella situazione e i setting che nei diversi contesti vanno a costituirsi. In particolare in questo caso la madre non è solo la madre di un bambino in carico, ma una “vittima” essa stessa di un evento traumatico, e che quindi ha, allo stesso modo del figlio, bisogno di sostegno.
In questo caso la rete ha permesso una comunicazione che consentisse di tutelare il lavoro in setting individuale su entrambi i fronti, garantendo il coordinamento degli interventi, ed evitando il pericolo di mettere in atto un “abuso secondario di tipo istituzionale” (Bertotti, 1997).
Il setting istituzionale, che in questo caso si declina negli interventi di rete e nell’organizzazione degli stessi, permette dunque in questo caso di pensare anche il setting individuale e si offre come cornice dello stesso, garantendo anche, attraverso le regole di setting, una protezione dello spazio terapeutico. Ma in altri momenti lo spazio terapeutico è stato al contrario invaso da quanto arrivava dalla rete, stimolando ancora interventi troppo diretti o direttivi tesi a valutare l’effettiva consistenza dell’abuso, che necessitavano quindi di continua riflessione e ridefinizione.
È interessante considerare quanto espresso da Negri et al. (1997): i quali sottolineano come “l’incontro con un bambino abusato genera un intenso impatto emotivo, una turbolenza affettiva che esercita una fortissima pressione a ‘fare’ qualcosa e che invece necessita di essere ‘tenuta’ e non ‘agita’, ‘lavorata’ a lungo all’interno del terapeuta prima di poter arrivare a produrre una risposta ‘non abusante’ ”. Questa pressione a “fare” sembrava circolare sia nella rete che all’interno delle sedute con Antonio: da una parte c’era l’esigenza del Servizio e della rete di avere maggiori informazioni relative ai “fatti” dell’abuso, esigenza con la quale tendevo ad identificarmi riuscendo solo in un secondo momento a garantire pensabilità alla stessa; dall’altra parte c’era la mia esigenza a “fare” chiedendo al Servizio i “fatti” della storia evolutiva di Antonio attraverso un’anamnesi più accurata. In entrambi si è reso necessario prima di tutto sospendere l’azione e, grazie anche al fatto che “il paziente si pone comunque come guardiano del setting”, dare ascolto a quanto avveniva in seduta e definire in modo più chiaro il setting e le modalità di intervento. Negri (1997) afferma che “ogni psicoterapia trova nell’astinenza e nelle altre regole di setting una protezione dell’incontro terapeutico che promuove l’affiorare di elementi che via via vengono analizzati. Che tipo di attenzione si debba prestare allora alla vita quotidiana, alla storia del paziente, al suo ambiente, al clima emotivo di vita presente e passata è una questione che viene ancora dibattuta”. In ogni caso è necessario che il terapeuta elabori prima di tutto dentro di sé i vari aspetti che emergono relativi al mondo interno ed esterno, alla storia di vita e alla relazione nella terapia.
1.4 Le sedute successive
Nel corso della presa in carico si è andata progressivamente sviluppando una maggiore capacità a tenere le “voci” istituzionali e la spinta a “fare” del Servizio fuori dalle sedute, conservando una maggiore attenzione a quanto accadeva all’interno delle stesse e sviluppando in base a questo un setting sia interno che esterno più stabile; ciò anche grazie al fatto che il paziente si pone sempre come guardiano del setting (Ferro, 1996), ed infatti anche Antonio non tardava a comunicare ogni intrusione o variazione. Si è pertanto potuto osservare progressivamente lo svilupparsi di un gioco maggiormente simbolico e l’instaurarsi di una relazione più rivolta al versante analitico che a quello “investigativo”.
È stato così possibile per Antonio segnalare in modo chiaro un’ulteriore occasione in cui i dati di realtà (in questo caso l’aver saputo che il Maresciallo della Procura lo aveva interrogato in Comunità) intrudevano nella nostra seduta senza lasciare spazio per una fantasmatizzazione più libera dei suoi vissuti. E così di fronte a delle domande su questo evento, Antonio ha reagito con un atteggiamento più chiuso e iniziando un gioco a Tris su un foglio. Quando abbiamo affrontato la sua difficoltà a parlarne, di fronte alla mia insistenza a fare domande su cose tanto difficili, la sua chiusura è progressivamente diminuita. E anche il fatto che avesse potuto comunicare la sua difficoltà senza lasciare la seduta per andare in bagno faceva pensare alla possibilità di sentirsi maggiormente contenuto e sostenuto all’interno della relazione terapeutica. Quindi, abbandonato il tris, ha iniziato un disegno libero: una tartaruga che, per quanto chiusa nel suo guscio, all’interno di uno stagno rotondo che sembrava avvolgerla tutta e contenerla, aveva comunque delle stradine che permettevano di uscire dallo stagno, e uscendo dallo stagno avrebbe poi trovato anche del nutrimento rappresentato da un albero posto poco distante sulla riva. Anche il nutrimento costituito dalla relazione terapeutica era divenuto ora più accessibile, e da qui ha avuto inizio un lavoro più strettamente terapeutico.
COSTITUZIONE DEL SETTING INDIVIDUALE NELL’ISTITUZIONE
“Le istituzioni attraversano i soggetti, esse sono sia dentro che fuori. Come segnalato da Kaes (1988) ‘ l’istituzione è uno spazio estroiettato di una parte della psiche […] essa sta sullo sfondo del processo ma non può essere indifferente al processo stesso. Il setting terapeutico è in rapporto di incastro e di reciprocità con il setting dell’istituzione stessa e con il setting interno (compreso quello teorico) del terapeuta’ ” (Profita, Ruvolo, 1997). Per questo risulta necessario considerare non soltanto l’aspetto di coerenza interna dei singoli setting, ma anche le complesse relazioni interistituzionali che vi insistono.
La complessa relazione tra setting dell’istituzione, setting individuale e setting interno rende fondamentale la capacità di mantenere viva la funzione pensante del setting, in modo tale che l’istituzione possa essere non solo la cornice esterna che contiene il setting analitico, ma anche oggetto del lavoro che si svolge all’interno del setting.
La possibilità di pensare al setting consente di affrontare la complessità e di non aderire in una sorta di identificazione primitiva e indifferenziata all’istituzione, ma di favorire il confronto tra i vari modelli e anche tra i modelli e le prassi cliniche. Ciò consente la costituzione di uno spazio mentale in cui il paziente possa essere accolto e in cui si possa stabilire una relazione terapeutica che tenga conto sia dei tempi del paziente che delle grandezze istituzionali.
È necessario però ricordare, come sostengono Venza e Ferraris (1997) che “l’attenzione all’interdipendenza fra setting e cornice organizzativo-istituzionale non può mai godere di una totale lucidità. L’immersione dell’operatore nello scenario organizzativo e il suo inevitabile coinvolgimento nei processi istituzionali producono inevitabilmente aree di non pensabilità”. Si rende quindi necessario un lavoro su due fronti: uno tecnico, che consenta la praticabilità della prassi rispetto ai vincoli e alle caratteristiche dell’istituzione, e uno analitico, che si muova in direzione di una riduzione delle aree di non pensabilità. In tal senso si esprimono anche Profita e Ruvolo (1997), i quali sostengono che il setting si pone come “istituzione altra” rispetto all’istituzione, con lo scopo di consentire la nascita e lo sviluppo di un pensiero su di essa.
Dopo che il setting terapeutico viene costituito, si può analizzare il processo che si sviluppa al suo interno. Infatti “il setting è una metacondotta, e da essa dipendono i fenomeni che andiamo a riconoscere come condotte. È l’implicito, dal quale però dipende l’esplicito” (Genovese, 1988).
Ciò si è reso evidente anche nella presa in carico di questo caso, in cui si è potuto vedere come la possibilità di sviluppare un pensiero sul setting ha progressivamente permesso il costituirsi di uno spazio mentale in cui le voci istituzionale rimanessero presenti solo come sfondo, consentendo invece lo strutturarsi di un setting individuale “muto” in cui potesse svilupparsi il processo analitico e in cui potesse svilupparsi progressivamente una relazione terapeutica all’interno della quale fosse possibile anche iniziare a trovare un maggiore accesso al simbolico e al gioco.
CONCLUSIONI
Durante la presa in carico di Antonio sono state affrontate difficoltà che si esprimevano su vari livelli, ma che riconducevano sempre alla necessità di garantire uno spazio di pensabilità in cui fosse possibile analizzare non solo quanto accadeva in seduta, ma anche le relazioni di questo con il contesto istituzionale e di rete circostante, senza tuttavia esserne invasi.
Il primo livello riguardava la pensabilità del setting: per garantire lo sviluppo di un processo diagnostico o terapeutico era fondamentale innanzitutto garantire un setting “muto”, che non subisse le interferenze provenienti dall’Istituzione, le quali altrimenti si manifestavano nella seduta interferendo con il processo in atto e andando ad ostacolare la possibilità di produzione emozionale e psichica di Antonio in seduta, andando quindi ad interferire con il processo stesso e con la sua analizzabilità. Solo all’interno di un setting muto sarebbe stato infatti in seguito possibile analizzare il processo.
Secondariamente era necessario affrontare il tema della pensabilità del trauma, tema che si declinava ancora sia a livello istituzionale che individuale, conducendo ad affrontare da un lato la spinta a “fare” che arrivava dall’Istituzione e con la quale inizialmente tendevo ad indentificarmi, e dall’altro la spinta ad ascoltare quanto il bambino portava in seduta, soprattutto le sue difficoltà a pensare e rappresentare il trauma, oltre all’ascolto dei vissuti di intrusione che attraversavano il campo.
La riflessione su questi temi ha consentito di entrare maggiormente in contatto con emozioni e vissuti che percorrevano il campo e con le mie risposte alle richieste dell’Istituzione, consentendo anche di sviluppare una maggiore capacità negativa intesa come qualità di non persecuzione, non intrusione, non decodificazione e non colonizzazione interpretativa del testo del paziente (Ferro, 1996).
In questo modo è stato possibile dirigersi progressivamente verso ciò che viene da Carratelli, Di Cori e Sabatello (1997) definito “il precursore” per la creazione di un setting, il quale non è “rappresentato tanto dalla neutralità implicita dell’oggetto […] quanto dalle sua qualità neutrali. Si tratta di qualità nuove, rese attive attraverso uno stile di osservazione partecipe nella quale il bambino possa fare esperienza della disponibilità emotiva nei confronti delle sue produzioni, dei suoi pensieri ed emozioni […]. Attraverso la particolare metodologia di ascolto e di attenzione per le diverse modulazioni del transfert […] possiamo aprire al senso e creare il contrasto tra il presente e l’intollerabile passato traumatogeno”.
L’apertura al senso appare dunque in ogni caso svilupparsi all’interno di un campo in cui interagiscono le produzioni dei diversi attori coinvolti, e in cui il setting può svolgere una funzione attiva e diventare esso stesso agente di trasformazione (Genovese, 1988).
Diventa quindi fondamentale compito del terapeuta garantire al paziente un setting “né ambiguo, né variabile, né alterato” (Bleger, 1967) quale non-processo all’interno del quale possa svilupparsi il processo analitico ed essere analizzato.
Ma, come abbiamo visto, all’interno del campo analitico la stabilità del setting viene garantita anche dalla disponibilità emotiva nei confronti delle produzioni del paziente, il quale “si pone comunque come guardiano del setting […] segnalando di continuo sia le scollature formali sia le variazioni di assetto, di recettività, di disponibilità dell’analista, sino a indicarne momenti di cattiva forma o addirittura momenti in cui c’è inversione del flusso delle identificazioni proiettive, L’assetto mentale dell’analista, se considerato come una variabile di quel campo che contribuisce comunque a formare, sarà (per un analista permeabile e ricettivo) continuamente disturbato e continuamente ritrovato” (Ferro, 1996).
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